Intervista a Francesca Manenti, a cura di Federica Zoja
Da “Avvenire” del 17 agosto 2021
«Voi avete l’orologio, noi il tempo, ammonivano i taleban negli anni ’90. Ed era vero. Hanno aspettato che gli americani e gli alleati si rendessero conto di non poter più restare e quando è scoccata l’ora del ritiro hanno riconquistato il Paese». Francesca Manenti è analista del Centro Studi Internazionali (CE.S.I.) esperta di Afghanistan.
Fino a che punto era prevista una rotta così fallimentare?
Era attesa e anche probabile, perché ormai sul campo i taleban dimostravano una superiorità operativa. L’incapacità delle forze afghane di reggere il colpo rappresentava una certezza per molti. Anche perché sono stati abbastanza abili da costruirsi una rete di intese locali in modo da arrivare alle porte dei maggiori centri urbani e godere di appoggi.
Hanno sviluppato una capacità negoziale superiore a quella dell’élite cui noi occidentali abbiamo consegnato il Paese? C’è forse una nuova generazione che si è preparata per questo momento?
Sì e no. Il gruppo ha attraversato una trasformazione rispetto agli anni ’90: ha una maggiore consapevolezza politica. Ma non direi che questo sia il frutto di una nuova generazione perché in realtà l’attuale capo negoziatore è Abdul Ghani Baradar, uno degli storici fondatori, e sappiamo quanto il carisma legato alla tradizione sia importante per i taleban. Però è vero che ci sono delle nuove leve, in primis il figlio del mullah Omar, Yakub, che in questo momento è fra i vertici della “Shura di Quetta” (Consiglio composto dai leader del gruppo), e sappiamo essere stato favorevole a un approccio diplomatico.
Quali i segnali della trasformazione?
L’ingresso a Kabul è stato “ordinato”. Nel ’95 espugnarono la capitale. Ora invece hanno atteso che il governo Ghani si dimettesse, per poi prendere il controllo. La consapevolezza di aver intessuto rapporti con le cancellerie regionali li rende sicuri: i russi sembrano intenzionati a non evacuare la propria ambasciata, l’Iran adotterà un atteggiamento pragmatico. Quanto alla Cina, la delegazione taleban a Pechino è stata accolta dal ministro degli Esteri.
È immaginabile un Emirato islamico inclusivo delle diverse anime del Paese?
Questo è il grande punto interrogativo. L’ex primo ministro Abdullah Abdullah e l’ex presidente Amid Karzai hanno dato la loro disponibilità alla formazione di un esecutivo di larghe intese.
E per le donne è ipotizzabile un futuro rispettoso del cammino compiuto?
Io non sarei molto ottimista, credo che la riconquista segnerà il ritorno al fondamentalismo islamico e quindi a limitazioni e regole. Quella afghana è una società civile a due velocità: una componente ha cercato di prendere il meglio che ha ricevuto in questi 20 anni. Ma i taleban godono di un forte sostegno nella popolazione, altrimenti non sarebbe stata possibile un’avanzata così incredibile. E questo perché il gruppo negli anni ha mantenuto il controllo di vaste aree rurali.
La manovalanza taleban è giovane, ha vissuto in un contesto “contaminato” dalla presenza straniera. Come si spiega il fascino del fondamentalismo?
Si tratta di giovani che non conoscono il significato della parola pace. Sono nati in un contesto di guerra. Hanno sì accesso alla tecnologia, alle informazioni, ma comunque il riferimento culturale è quello fondamentalista. Anche per le donne delle loro famiglie.
C’è il rischio che l’Emirato afghano torni ad essere il cuore della galassia jihadista?
Negli anni è avvenuta una sorta di osmosi fra al-Qaida (la Base) e l’insorgenza taleban, anche grazie a matrimoni fra leader della rete terroristica e figlie dei capi locali. Al-Qaida si è ‘talebanizzata’. Immaginare un ritorno alla Base degli anni ’90 è improbabile. Il rapporto con lo Stato islamico, invece, è sempre stato conflittuale. Negli accordi di Doha, i taleban si sono impegnati affinché il Paese non sia un crogiolo di sigle jihadiste. Però, fra di loro ci sono parti residuali di guerriglieri stranieri: loro potrebbero cercare di sfruttare il successo afghano per fare propaganda. La riconquista potrebbe di per sé rappresentare un precedente ispiratore.