La nostra amicizia per loro è la vita
Tutto è nato circa un anno fa quando Egle, presidentessa dell’ANFFAS, ha chiesto all’Anna se potevamo organizzare delle feste per i ragazzi disabili. Cosi è nato il desiderio di conoscerli e, una volta la settimana, siamo andati a fare merenda con loro. Stando con i ragazzi, sia noi che i responsabili dell’ANFFAS dopo ogni festa rimanevamo sempre più entusiasti. Cosi ci hanno chiesto di passare con i ragazzi un pomeriggio alla settimana organizzato interamente da noi.
Questo gesto ha fatto nascere presto un’amicizia particolare con ciascuno di loro. Tanto è vero che Egle ci ha ricordato più volte che noi siamo gli amici che vorrebbero! La nostra amicizia, la nostra storia, per loro è la vita: incontrare noi è incontrare la vita. Infatti, tutti i venerdì scendiamo gli scalini, apriamo la porta e veniamo letteralmente assaliti dai loro abbracci e baci.
La caritativa è gratuità, io vado là dando tutto me stesso come sono capace, facendo canti, giochi, balletti che possono sembrare scemi, e per loro questo è la vita.
Uno degli ultimi venerdì ci hanno raccontato che sarebbero andati a vedere il concerto di Jovanotti: ci facevano sentire le canzoni che avevano imparato per questo evento, ci invitavano con loro come io farei con le persone cui tengo di più. Questo momento mi fa essere così contento che se non ci andassi sarebbe come se mi mancasse qualcosa.
E’ proprio così: non posso rinunciare al gesto della caritativa perché è il momento in cui imparo a condividere tutto della realtà. Condividere non è subire passivamente una presenza, ma accettarla. Ciò significa avere un’attenzione particolare nei loro confronti, perché c’è chi ha bisogno di cantare, di ballare, di parlare e c’è chi non può fare niente di questo ma ha bisogno solo di una semplice compagnia. Questo condividere, questo sguardo e questa attenzione sto imparando ad averli su tutte le cose, specialmente su mia sorella che vedo solo 2 volte alla settimana.
Condividere è la cosa più umana che ci sia, ma non è facile, occorre fidarsi degli amici che hai vicino.
Giovanni – Da “Tracce”
Amando fino alla fine
«Shahbaz diceva sempre che "i poveri non hanno religione". Lui stava dalla loro parte, senza badare al loro credo. A essi si dava completamente: riceveva telefonate anche nel cuore della notte. Gente che chiedeva aiuto. Scattava in piedi, si vestiva rapidamente e usciva. Senza scorta. Non ha mai avuto paura per sé, ma ne aveva per gli altri» (Dino Pistolato, direttore della Caritas di Venezia).
C’ero anch’io in Pakistan quando venne ammazzato il governatore Taseer (un musulmano moderato, ndr).
«Mio fratello mi aveva rivelato di essere in pericolo e io l’avevo invitato a lasciare tutto e a raggiungermi in Italia. Mi rispose che se si fossero calmate le acque, si sarebbe calmato tutto e nessuno avrebbe portato avanti la causa, e quindi non voleva andare via. Disse che potevano fermarlo solo ammazzandolo» (il fratello Paul). Istantanee di un martire della "causa" della libertà, additato come modello da Benedetto XVI nel recente discorso al Corpo diplomatico in Vaticano.
Il nome di Shahbaz Bhatti era quasi sconosciuto alle cronache fino al 2 novembre 2008, giorno in cui fu nominato ministro per le minoranze religiose, primo cristiano membro di un governo nella Repubblica islamica del Pakistan, coacervo di integralismo islamico e anti occidentalismo incendiario. Ma il nome di questo cattolico laico è diventato un emblema internazionale nel 2011: il 2 marzo 26 colpi di kalashnikov ne trapassarono il corpo in un attentato troppo preannunciato per essere smentito dai fatti. La sua battaglia in favore di tutte le minoranze religiose lo aveva condannato a morte agli occhi dei terroristi di Tehrik-i-Taliban-Punjab che ne rivendicarono così l’assassinio: «Questa è la punizione per un uomo maledetto».
La sua ultima colpa: aver preso le difese di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia.
A un anno dal suo «commuovente sacrificio», così lo definì Benedetto XVI, che lo aveva incontrato pochi mesi prima della morte, rivisitare la figura Bhatti significa immergersi in una testimonianza cristiana, sociale, culturale e politica di prima grandezza. Il Vangelo, anzitutto: chi scrive lo incontrò nel 2008 per un’intervista sul suo libro Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza (Marcianum Press).
La radicalità del credente appariva da un dettaglio: «Ho deciso di non sposarmi per dedicare tutta la mia vita a Cristo nel servizio dei miei fratelli cristiani perseguitati». E raccontava, il volto serio addolcito dai folti baffi neri, quello che al tempo era "solo" il direttore della All Pakistan Minorities Alliance (un’associazione a difesa dei non islamici, da lui fondata nel 1985), le minacce di morte ricevute, gli attentati subiti, le percosse accettate per il suo impegno totale in vista della libertà religiosa di tutti, in primis i cristiani, il 3% della popolazione pakistana, i credenti più discriminati.
Per statura e impegno il neo ministro Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, accosta Bhatti a Martin Luther King. Coincidenza eloquente: il primo nacque l’anno in cui morì il secondo, il 1968. E il racconto della Milano, attraverso amici e collaboratori di Bhatti, delinea la multiforme personalità del ministro assassinato.
Evidenziando un dato insistente che, in tempi di "casta" e polemiche sul Palazzo, dà l’idea della grandezza dell’uomo: Bhatti era stato scelto dalla politica, non viceversa. Scrive Milano: «Nelle foto istituzionali, in giacca e cravatta, è un uomo quasi triste, uno che vorrebbe essere altrove, ma sa che non può. Nelle foto scattate durante l’assistenza ai bisognosi appare un’altra persona. Raggiante». Spiega l’ambasciatore a Islamabad, Vincenzo Prati: «La politica non gli interessava, non era ambizioso. Non ha approfittato della sua carica né si è fatto mai corrompere». Il vescovo di Faisalabad Joseph Coutts ribadisce: «Non era felice di fare il ministro, ma voleva parlare a tutti.
La politica era lo strumento per portare all’attenzione del governo i problemi delle minoranze». Un testimone di prima grandezza, quindi. Che parla a tutti per l’indefesso impegno a favore degli ultimi, sikh, indù, musulmani, cristiani. Per l’uomo, insomma: fenomenale il suo impegno dopo il terremoto nel Kashmir del 2005. Ma era dalla fede in Cristo che Shahbaz Bhatti attingeva energia. A chi gli chiedeva il perché di tanta audacia, il ministro cattolico nato nel Punjab rispondeva semplice: «Ho lasciato la mia vita nelle mani di Gesù».
Da Avvenire
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