Metti una sera, a cena con Pascoli...
Fine novembre: gita con tutte le seconde a visitare la casa di Giovanni Pascoli. Arriviamo a Castelvecchio, nel lucchese. Visitiamo la casa, leggiamo le poesie nel giardino, poi via di nuovo, in direzione di Barga. Verso la fine della giornata due ragazze raccontano del loro "incontro" con il poeta: si sono accorte che nelle sue parole c'era un bisogno, un mistero, la voglia di qualcosa di più delle solite abitudini.
La nostra prima reazione è stata quella di pensare che quanto detto non c’entrasse nulla con noi, che fosse qualcosa di astratto. Tutto sommato era stata una bella gita: lo stare insieme, il divertimento, i canti... Ma nulla di più.
Il giorno dopo, durante l’ora di Latino, è nata una discussione su quel desiderio di cui parlavano le nostre compagne, e proprio noi, che in principio contestavamo ciò che avevano detto, ci siamo accorti che era proprio ciò che stava succedendo nella nostra vita: siamo insoddisfatti della solita settimana di noia, dell’attesa di un sabato che passa sempre troppo in fretta, siamo stanchi di non vivere. Vogliamo essere felici in ogni momento e non “sopravvivere”, come invece ci sta capitando. Lo stesso giorno il professore ci ha invitato a una cena per preparare l’open day su Pascoli. Non volevamo andare, ma alla sera un amico, che fino a quel momento non aveva mai accettato di implicarsi più di tanto nella vita della scuola, è riuscito a convincerci. Trovandoci insieme è emerso sempre di più che non ci basta nulla, che siamo inquieti e insoddisfatti e che questo desiderio ci accomuna: potevamo essere amici a partire da questa domanda, senza censurarla come avevamo fatto fino a quel momento. Così, per riscoprire la novità sperimentata, abbiamo deciso di proporre ogni mercoledì un pranzo tra amici dopo la scuola, per non lasciare andare tutto, per tenere sempre aperta questa domanda che brucia, che fa male, ma che, come ci ha detto un professore che si è unito a noi, «per fortuna esiste, perché ti fa gustare una birra, ti fa gustare un panino, ti fa gustare la bellezza di una donna, ti fa gustare tutto».
Pietro e Marco
La stanza di Adele
Appena l’ascensore si chiude, e resta sola, inizia a piangere. Tutte le volte che esce da questa casa è così. Chiara ci viene ogni venti giorni, da due anni, fa l’infermiera a domicilio e ha il compito di cambiare il catetere ad Adele. È sempre una lama nel cuore vederla: ha la sua stessa età, quarant’anni, ma vive in un letto. La sclerosi multipla l’ha colpita negli anni belli dell’Università, mentre studiava Medicina, e oggi non riesce più a fare un movimento volontario. Solo scatti, che non controlla.
Chiara arriva e, come ogni volta, la madre di Adele le dà il benvenuto prestando la voce alla figlia, che la saluta con un «..ao», soffiato fuori dalla bocca con tutta la forza che ha.
Poi entra il padre. È lui che fa più soffrire Chiara. Quando mette piede in quella stanza, trova sempre qualcosa che non va. È nervoso, perché la figlia si sbrodola, perché è pesante da spostare, perché non parla. Perché è così. Glielo si legge in faccia, e lo dice anche. E Adele sente, in certi momenti si fa scura in volto. «Ma perché quest’uomo fa così?», si chiede Chiara. «...Be’, questa è la sua ribellione. Lo capisco», si acquieta ogni volta.
Ma poi guarda Adele, quei suoi occhi «così belli». E i modi di quel padre le danno troppo dolore: non c’è ragione al mondo per trattarla male. Eppure non riesce mai a dire una parola. Fa fatica a stare in quella stanza con lui, le verrebbe da fare tutto in fretta e andarsene. Però c’è Adele. E allora fa tutto per bene, si ferma a parlare con la madre, i venti minuti diventano sempre un’ora. Poi se ne va, e piange.
«Quel pianto, tutte le volte, era mio. Era un male mio. Ma non sapevo cosa dire, cosa fare. E ho iniziato a pregare, ogni giorno. Per Adele, per i suoi, per me. Ho cominciato a chiedere: “Intervieni Tu, dall’alto”».
Un giorno, mentre è lì a fare il suo trattamento, la madre le dice: «Poi ho un desiderio, sa? Vorrei poter portare Adele a Messa...». Chiara le dice che si può fare: basta trovare il modo, lei viene un po’ prima per aiutare a sistemarla e la portano con la carrozzina. «Va bene, vedremo», risponde la madre. Ma il solo fatto di quella richiesta, venuta fuori così dal nulla dopo due anni, fa scattare qualcosa. Una commozione più forte.
È a quel punto che Chiara si gira verso il padre: «Mi scusi, ma devo dirle una cosa: Adele è sua figlia, ed è così. La accetti com’è. È sua figlia!». L’uomo la guarda, sorpreso. E tace. Neanche una parola. «È stata un’esplosione mia», racconta Chiara: «Sono scoppiata io, per la bellezza di Adele, per il bisogno di guardarla tutta. Quel giorno non ero andata lì pensando di dire qualcosa, non mi ero preparata. Era il Signore che già mi stava rispondendo». E che, dalla volta dopo, la spiazzerà completamente.
Chiara arriva e la madre le racconta che, qualche giorno prima, è venuto il prete a portare la Comunione ad Adele. Poco dopo, entra il padre. È un altro. «La faccia serena, rilassato. Si è messo lì, non un lamento, una parola scocciata: io lo fissavo e non ci potevo credere. Ho avuto un brivido». Mezz’ora. Un’ora. Poi i saluti. «Uscendo, ho pensato: non è possibile, sarà un giorno particolare».
Invece, da allora, è sempre così. «Lui entra e sta lì. Osserva, in silenzio. E se dice qualcosa, non è più brusco, o agitato, ma lo fa con delicatezza. Mi chiede consigli. Si fida», racconta Chiara. «Io non so cosa gli sia successo. Ma so che io ho chiesto questa cosa. Ho chiesto a Dio che si mostrasse, che intervenisse in qualche modo, e Lui lo ha fatto. Non “dall’alto”. Ma come Uno che agisce entrando nella realtà, dentro le cose».
Dentro la stanza di Adele.
Da “Tracce”
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