Il lavoro, la malattia: la fioritura dell’umano
«Che cosa succede quando mi accade l’avvenimento cristiano? La fioritura dell’umano». La prima reazione è stata pensare: vuol dire che col cristianesimo tutto si sistema, c’è il centuplo quaggiù eccetera. In questi giorni mi sono capitati due fatti che mi hanno spiazzato rispetto a questa prima reazione. Il primo. Mio figlio è rimasto senza lavoro causa ridimensionamento dell’organico.
Lavorava da meno di un anno dopo avere finito l’università, stava progettando il matrimonio. Sono rimasto colpito dalla sua mossa positiva: sta incontrando un sacco di persone per colloqui, consigli, piccole collaborazioni. Non si lamenta, non si è chiuso nel cinismo o nella rassegnazione, non è un indignado. Semplicemente, si è messo in azione con tutte le sue energie, sta vivendo la crisi come un’opportunità. E quando lo guardo muoversi così, anche a me (che ho tutto) viene più voglia di mettermi in azione.
Un altro fatto. Un mio carissimo amico è stato ricoverato all’ospedale per il peggioramento della sua salute. Per questo era arrabbiato col mondo. Un giorno sono andato a trovarlo e mi ha detto: «Sai, in questi giorni sto capendo il significato vero di certe parole che dico da tanti anni, ma che non mi sono mai sembrate così vere come adesso. Quando la sera recito i salmi della Compieta e leggo: “In pace mi corico e subito mi addormento, tu solo Signore al sicuro mi fai riposare”, capisco che è proprio come se quelle parole fossero state scritte per me. Solo mettendomi nelle mani di Dio riesco a riposare, ad addormentarmi, a ritrovare la pace che mi fa superare la mia rabbia». Anche per lui, dunque, l’umano che “fiorisce” non significa che le cose si mettono a posto, ma che lui capisce dove sta la consistenza ultima della sua vita. L’altro giorno poi è successa una cosa sorprendente: la sua vicina di letto ha rischiato di morire, è stata salvata per un pelo. Il marito è andato dal mio amico, e gli ha detto: «Mi scusi, io non prego, ma vedo che lei lo fa. Per favore, può pregare per mia moglie?». Forse, per lui è stato come avere incontrato il volto di Gesù nel mio amico.
Giorgio, Milano
«Continuate a cantare per Lui»
di Alessandra Stoppa
10/12/2012 - La passione di Giovanna? La musica. Lei è malata di Sla. I figli invitano a casa il coro CeT. Si comincia da "Monte Canino". Fino a una crisi respiratoria. Ma quando si riprende non vuole che se ne vadano: «Gesù vi renderà merito per le vostre voci».
Stasera niente prove. Si va a cantare a casa di Giovanna. I ragazzi entrano in salotto, uno dopo l’altro: un coro intero, per farle sentire i canti di montagna. Lei li saluta con gli occhi, chiari. Giovanna si è ammalata di Sla quattro anni fa. Dopo aver perso il marito giovane e aver tirato grandi i sei figli. Sono loro a prendersi cura di lei, attenti al suo respiro, a ogni battere di ciglia. Hanno imparato a capirla così, anche quando le sale su il desiderio di dire e le si ferma in gola, o di cantare, e non può farlo. La musica è la sua passione. E allora i figli le organizzano dei piccoli concerti in casa. Stasera è venuto il coro CeT, Canto e Tradizione. Più di una ventina di ragazzi. Sono abituati a cantare davanti a tre, quattrocento persone, e sono qui per lei. Il colpo davanti a Giovanna è forte, li fa timorosi. Ma i figli sciolgono ogni imbarazzo, chiedono di loro. Si presenta il capocoro, Alessandro, poi il più “piccolo”, Simone, e via via tutti. Il coro è nato una decina di anni fa da alcuni ragazzi del Politecnico, allora sono soprattutto studenti d’Ingegneria, o già laureati, ma poi spunta qualche letterato, altri da Medicina, Giurisprudenza.
Si comincia. Monte Canino. È quella con cui iniziano ogni concerto, perché «racconta di tutta la durezza della salita, ma anche di una certezza», dice Vittorio. «Se avete fame, guardate lontano / se avete sete, la tazza alla mano / che ci rinfresca, la neve ci sarà. È la prima cosa che lo commuove nel cantarla davanti a Giovanna: «La neve ci sarà. È una promessa sicura».
Continuano con altri canti. Ma, dopo mezz'oretta, Giovanna ha una crisi respiratoria. I figli la soccorrono subito. I ragazzi s’impauriscono, e stanno in silenzio, imbarazzati. «Volevo andare via», racconta Carlo. Ed è quello che attraversa anche i pensieri degli altri. «Ci ha presi un po’ la paura, un po’ la preoccupazione di essere di troppo in quel momento». Pian piano Giovanna si riprende. E, subito, fa cenno con gli occhi di voler parlare. I figli le avvicinano il pannello con le lettere: le fissa, una dopo l’altra, per dire qualcosa. «Ora si scuserà perché non se la sente di continuare. Ma va bene così, è già tanto essere stati qui fino adesso», pensa Carlo. La figlia aspetta, poi ripete quello che la mamma ha “scritto”: «Mi fate quella... come si chiama... Sono tre ore che sono qui...». Non ci credono. «Lei voleva che stessimo lì. Voleva che continuassimo a cantare», dice Vittorio: «E voleva una canzone allegra». La storia di Bepin, che chiede all’amata di affacciarsi perché ogni volta che te rivedo me mi vien el sbrisegolin. «In quel momento, il pensiero di fuggire, la paura... Non c’era più nulla. Abbiamo ripreso a cantare, ancora più presenti nel farlo».Quando finiscono, Giovanna sbatte gli occhi più volte. Vuole parlare di nuovo. Tutti aspettano in silenzio. «Gesù vi renderà merito per le vostre voci». Guarda ancora le lettere, una alla volta: «Continuate a cantare per Lui». È uno schianto. Il silenzio nel salotto si fa pieno. «Lei ha capito il senso profondo per cui io canto», continua Vittorio: «Stava vedendo il mistero di Cristo». Pensa a sé, a quanto è ottenebrato perché è sotto esame, per le cose che ha da fare. E guarda lei, «che vive una sofferenza immensa, ma splende. Riconoscere il Signore nella realtà è più forte».
Prima di andare via, Giovanna chiede di pregare insieme, vuole donare a ciascuno la preghiera per la beatificazione di don Giussani e chiede che la recitino tutti i giorni. Poi li saluta: «Al bar di sotto vi aspetta la grappa».
Scendono, festeggiano, e continuano a cantare nella piazzetta. Non sanno se Giovanna li sente attraverso le finestre. Ma loro sono così grati. «Siamo venuti da una donna che sta male per farle un regalo, e lei ci ha ricordato l’origine delle cose. Riceviamo tutto. La vita, il respiro, il senso delle cose». Alle prove, la settimana dopo, è diverso. «Non solo il cantare», dice Carlo, «ma anche come ci trattiamo». Sentono dominare in loro quello che hanno visto, anche per chi tra loro non sa da dove viene. Qualcosa di invincibile. «Una fede che nell’ombra della malattia e della morte non cede. Ma risplende più viva che mai».
È possibile inviare lettere o testimonianze alla email:
Le pubblicazioni saranno quindicinali.