Il fotomodello ribelle: “Basta sfilate e party con Madonna, preferisco correre come un eroe”
L’uomo degli addominali. The abs guy. A chiamarlo così, sfiorandogli il ventre, fu la diva per eccellenza, Madonna, che nel 2009 gli chiese di sbottonarsi la camicia nel bel mezzo di un party alla moda newyorchese per mostrare la parte del suo corpo che l’aveva reso famoso negli States. Michele era all’apice della carriera. Copertine di riviste patinate e fotografi di grido. Intorno a lui, bravo ragazzo di provincia scopertosi modello a Miami, d’un tratto si era svelata la notte loca.
Vedeva stappare bottiglie di Cristal e di Grey goose al tavolo in discoteca, i giri dei vassoi e la polvere bianca. Piombato in un universo che non era il suo, dopo due anni sente il vuoto dentro. Complice qualche avance di troppo ricevuta nell’ambiente abbandona la moda, per la sua volontà di non scendere a compromessi. Una vecchia passione poi ritorna, compulsiva: l’ultramaratona, gara da 50, 100, anche 200 chilometri, dove è la testa ad arrivare dove il corpo non ce la fa. E il 17 marzo, in concomitanza con la mitica Milano-Sanremo di ciclismo, di chilometri proverà a farne 290. Un’avventura da eroe. E per beneficenza.
Michele, 29 anni, di cognome fa Graglia, l’origine è ligure, proprio di Sanremo, meta della sua impresa. Più precisamente di Arma di Taggia, dove la famiglia commercia il classico del territorio: i fiori. “Facevo tanto sport – racconta lui – studiavo al liceo scientifico. Un bravo ragazzo, riuscito a scampare alle cattive compagnie“. Poi l’entrata in azienda. Con il tempo i viaggi d’affari al seguito dei genitori da bambino diventano le esperienze di vendita dirette, poco più che ventenne, negli States e in Giappone. “Mi piaceva lavorare sodo: guadagnavo bene e me lo meritavo. Avevo la macchina (una Bmw Z4) e la moto (una Honda Hornet 600). Ma non mi bastava”. Nel 2007, fa i bagagli e s’imbarca per Miami. Corso di lingua, qualche mese all’estero, e poi chissà. All’avventura, primo domicilio l’appartamento di un cliente. Un mese sul divano. Già i primi giorni, però, una rivoluzione: “Ero seduto al locale Johnny Rockets, a South Beach, sull’Ocean drive, quando si avvicina una donna davvero fabulous… Pimpata, griffata, tutta rifatta; si avvicina rubando la scena e mi chiede: ‘Sei un modello?‘”. Era Irene Marie, guru delle agenzie di moda. Lui, all’epoca, aveva un look “pirati dei Caraibi” con barba e capelli raccolti. “Un misto tra Orlando Bloom e Jack Sparrow…”.
Inizia una nuova vita. Due anni di escalation vissuti a mille, i marchi che lo vogliono diventano via via più importanti (Armani, Costume national, Galliano, Nike). I cachet raggiungono picchi da 20 mila dollari. “Frequentavo mansion da decine milioni di euro a Star Island o giravo con la Rolls Royce Phantom di un amico, ne ho viste di ogni”. Macchine, yacht e piscine. La bella vita. Poi il trasferimento a New York. “Vivere così fa perdere il lume della ragione: ero sempre in giro, sempre ‘fuori’ la notte, ero distrutto. Sentivo un vuoto dentro: era solo la mia bella presenza a rendermi gradito”. All’ingresso dei locali, la folla si apriva come le bibliche acque. “Non è questo che dà la felicità. Non sono i soldi come pensano tutti. Ho assistito a scene allucinanti, milionari che piangevano all’alba tra le mie braccia perché si sentivano soli“. Alla crisi personale si accompagna quella professionale quando sfuma un servizio su Vogue con il fotografo Bruce Weber: “Al dunque non ho voluto scendere a compromessi: non sono fatto così, sapevo che non avrei fatto a lungo il modello ma tutto questo mi ha deluso. C’è troppo sfruttamento.
Ricomincia a correre, come faceva da ragazzino. Stop alla vita sociale, solo lavoro (è tornato con l’azienda di famiglia). Corsa e ufficio, al massimo qualche inattesa lettura di antropologia o religione. “Così ho ritrovato me stesso“. I limiti, prima superati con la trasgressione, adesso andavano oltrepassati macinando chilometri. Centinaia di chilometri tra Harlem e Battery Park, tra i ponti di Brooklyn e Manhattan, e poi gli allenamenti a Los Angeles, proprio dietro alla scritta Hollywood. “All’inizio era solo un antistress, poi mi ci sono buttato a capofitto”. Ma è con l’iscrizione alla Florida Keys 100 (miglia) che il gioco si fa duro. Ore e ore di corsa, più di mille km in una settimana per prepararsi, con i tendini che ululano e i muscoli che gridano. “Le giunture messe a dura prova, i piedi dilaniati, le vesciche, i dolori”. Ogni giorno. “E’ la scoperta di sè attraverso l’esplorazione dei propri limiti”. Traguardo raggiunto, tre vittorie lo proiettano in una nuova dimensione. Fatiche bestiali, dove “la resistenza diventa man mano più spirituale che fisica”. Il motto è: “Resistere e non arrendersi”. E, infatti, Keep on going è il nome della onlus fondata con l’amico Riccardo Marvaldi (classe ’83), per correre la UltraMilano-Sanremo, il 17 marzo, con il supporto di Telethon. Un’impresa titanica da 290 chilometri con l’obiettivo di sempre: “Cercare l’avventura dei momenti difficili, la sfida con il tuo corpo. Quegli highs & lows (alti e bassi) che sono il motivo di questo sport. Perché la forza è sempre e solo dentro di te“.
Giacomo Valtolina - da Corriere della Sera.it
Fare bene il proprio lavoro insieme
Nel mio posto di lavoro ciò che era impensabile un anno fa ora è quotidianità. Una struttura che pareva indistruttibile ora è resa fragile. Confusione, incertezza, sconforto sembrano essere le parole che vorrebbero definire ciò che accade. Il bisogno che io e i miei colleghi abbiamo è quello di essere strappati da questa confusione, incertezza.
Per me tutto ricomincia dagli sguardi, cioè dal lasciarmi guidare dagli incontri che mi vengono dati. I rapporti rinascono, rifioriscono, si fanno più vicini: accade di stare di fronte a una collega che ha appena perduto una persona cara, a un’altra che ha avuto un grave incidente, a chi sta per avere il secondo bambino e a chi battezza il primogenito. Soprattutto accade che ci si aiuta a fare bene il proprio lavoro, che in questo periodo per molti è duro e faticoso. Così la preoccupazione svanisce per lasciare posto alla certezza che tutto è positivo (cioè è dato) ed è per me.
Ma questo sarebbe ancora inutile o, peggio, illusorio se la certezza non fosse guidata dall’evidenza di un Bene che ho già sperimentato e che so essere per tutti, perché anche questa difficoltà sul lavoro è ciò che mi permette ora di sbaragliare l’estraneità con Gesù.
Alice – da Tracce