Ha appena annullato il nuovo tour europeo per riprendere la sua battaglia contro il cancro, già affrontato e sconfitto nel 2003, ma oggi e domani Anastacia sarà sul grande schermo in Italia con All You can Dream di Valerio Zanoli che segna il debutto come attrice della celebre cantante, nei panni di se stessa. Destinato al pubblico delle famiglie, presentato in anteprima mondiale all’ultimo Giffoni Film Festival e poi in Usa al leggendario Chinise Theatre di Hollywood lo scorso 18 febbraio, il film è la storia di un’adolescente americana, Suzie (l’attrice teatrale Hali Mason), tormentata dall’eccesso di peso e dal bullismo delle compagne di scuola. Due temi particolarmente sentiti in America, ma non solo.
Nel film Suzie placa l’ansia e la mancanza di autostima con giganteschi panini grondanti colesterolo, pollo fritto e dolci, incoraggiata dalla madre altrettanto obesa e depressa dopo la morte del figlio e la separazione dal marito. Ma Suzie ha al suo fianco proprio Anastacia, la sua cantante preferita, che come un angelo custode le compare per spronarla con grinta ed entusiasmo a credere in se stessa. E stringe il cuore sentire la cantante raccontare alla giovane la propria esperienza con la malattia, mentre le ricorda che non bisogna arrendersi mai e che le sue canzoni più belle sono nate proprio in quel difficile periodo. Le cose cambiano davvero con l’arrivo in casa della nonna tutto pepe della ragazza convinta a ribaltare il proprio destino rimettendo in forma il corpo e educando quella splendida voce destinata a farle vincere un importante gara canora. Tra i giurati della competizione, manco a dirlo, proprio Anastacia, colpita dal talento di quel brutto anatroccolo trasformatosi in cigno.
Al suo quarto film, Zanoli che vive negli Usa dal 1996 ed è attualmente impegnato nelle riprese del suo nuovo lavoro, un film sulla danza, conferma la sua attenzione ai temi sociali risvegliata in lui anche dall’educazione cattolica ricevuta.
Al telefono dall’Arizona, ci racconta: «Mia madre ha lavorato come assistente sociale negli ospedali, sempre a contatto con la malattia. E per anni, fino alla sua morte, ha combattuto con tre diversi cancri. È quindi per renderle omaggio e per sensibilizzare l’opinione pubblica che ho realizzato il mio film, Note di speranza. L’obiettivo era continuare a fare film coniugando temi importanti e un po’ di leggerezza. Un mio amico medico all’Umberto I di Roma mi ha rivelato che l’Italia è al secondo posto nel mondo per obesità infantile e ho quindi deciso di approfondire questo argomento leggendo moltissime testimonianze che mi sono servite a costruire i miei personaggi. Io stesso – svela – appena arrivato in America, complice una sbagliata alimentazione, ho sofferto per un certo periodo di obesità. E quando sei sovrappeso, la scuola può trasformarsi in un luogo infernale, soprattutto per una ragazza. Ma nel film si parla anche di ragazze che non mangiano per essere all’altezza delle aspettative delle madri». Coinvolgere Anastacia nel progetto è stato tutt’altro che difficile: «Mi serviva una cantante è ho pensato ad Anastacia che ha da tempo abbracciato il mondo del sociale. Ha letto la sceneggiatura e dopo solo due giorni ha accettato. Nella scena in cui parla della sua malattia Anastacia dimostra di essere una vera combattente, portatrice di valori importanti. Ora sta a tutti noi essere i suoi angeli custodi».
Dopo due giorni in sala il film arriverà poi in dvd in aprile, mentre la canzone del film Make Me Belive, composta dal team milanese tOst Experience, sarà cantata in italiano con il titolo Crederai da Annalisa Minetti.
Alessandra de Luca - da Avvenire.it
La bussola che orienta il mio cuore ogni giorno
Che lavoro è il mio? A volte fatico a spiegarlo alle persone. Ora più che mai i servizi sociali preposti ad aiutare le persone sono carenti, hanno esaurito i fondi. Cosa rimane? L’ascolto, la parola.
Quante volte tutto ciò mi è parso insufficiente ed inutile. E nonostante tutto, alcune persone mi ringraziano del niente che faccio, o ancora mi trovo a discutere con colleghe sul da farsi perché voglio una risposta da un servizio specifico o dal responsabile in persona, e la collega che ti guarda in modo compassionevole e dice: «È tutto inutile perché non ha diritto».
Uno dei tanti volti che incontro durante il mio lavoro di assistente sociale è - chiamiamolo - Robert, un uomo sui cinquanta, arrivato dall’Albania molti anni fa; un lavoratore, una persona educata, umile. Quanto sarebbe stato bello se avesse preteso, magari anche con un leggero tono prepotente, quanto sarebbe stato facile e “giusto” liquidarlo con un corretto: «Mi spiace, ma non ha diritto a questo o quell’aiuto». Invece Robert è felice, perché ad agosto è diventato papà di una bimba stupenda, che per tanti anni ha cercato e che aveva perso la speranza di poter avere. A settembre gli viene diagnosticata una malattia, una di quelle che danno poche possibilità di vita. Robert è felice, capisce e comprende appieno la sua malattia, tanto che i medici si stupiscono di come non si disperi e di come sia sereno. Lui è felice per la sua bambina. Non è preoccupato per la malattia che riconosce più forte di lui, ma desideroso di dedicare ogni energia ed ogni istante a sua moglie e a sua figlia. Protegge la moglie dalle informazioni che, drammatiche, si susseguono. Si tormenta, non per la malattia, ma per il futuro economico delle persone che a lui sono più care. La sua famiglia è musulmana, i suoi amici cristiani. Non fa cenno alla religione, solo mi confida che per la figlia vuole che creda nel crocefisso, vuole che vada in Chiesa e che ogni anno viva la Pasqua e la passione di Cristo come lui ha vissuto la sua, senza rabbia, vuole che viva il Natale e la gioia della nascita di Gesù, come quando è nata lei, perché l’amore è più forte della sofferenza e il Mistero che lui chiama speranza che vede nel prossimo è il suo sostegno.
E allora cosa fare per lui? Come mi sento con lui? Sono soltanto le parole di Gabriella, che fra poche settimane va in pensione e ha fatto per una vita l’assistente sociale, ma che vive gli ultimi giorni di lavoro con la stessa passione e ardore dei primi tempi in cui l’ho conosciuta. Lei mi insegna che: «L’altro sente che noi teniamo alle sue cose, alla sua vita e non ci accontentiamo della soluzione più facile e sbrigativa, proprio perché siamo interessati allo scopo ed è per questo motivo che allarghiamo lo sguardo e troviamo altre soluzioni». O ancora Elena, che mi ricorda una frase sentita la domenica prima a messa: «Il Mistero non ci ha lanciati nell’avventura della vita senza fornirci di una bussola con cui potessimo orientarci. Questa bussola è il cuore».
E allora capisco perché Robert mi dice grazie. Ecco perché loro vivono così il loro impegno professionale, ecco perché Robert è felice per la sua bimba, ecco perché mi sento grato del niente che sono e che faccio.
Enrico
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