Quella scritta sulla lavagna: «NO»
Mia mamma è gravemente inferma. Una mattina in cui ero andato a trovarla, entrando nella sua stanza e vedendola sulla carrozzella, con la testa piegata, davanti alla televisione che non stava guardando, ho avuto come una stretta al cuore. Ho iniziato a dialogare con lei, come faccio quando ho un po’ di tempo: le pongo qualche domanda e lei, che non può parlare a causa della tracheotomia, mi risponde scrivendo su una lavagnetta. Senza troppo riflettere mi è venuto da chiederle: «Mamma, pensi mai ai bei momenti di quando eri giovane, c’era il papà e noi figli eravamo tutti a casa?» E lei, subito, ha scritto «NO».
La risposta perentoria mi ha un po’ sorpreso, e allora le ho chiesto di nuovo «Ma come, non cerchi mai di ricordare una bella giornata, quando eravamo piccoli, un momento felice?». E lei, decisa, ha riscritto «NO». Allora ho capito che non era confusa, e le ho chiesto il motivo di quelle risposte secche. «Perché non modificherebbe la situazione presente», mi ha scritto. Sono rimasto veramente colpito dall’essenzialità e dalla verità di quello che la mamma mi aveva scritto. E poi le ho chiesto: «Mamma, ma allora cosa fai tutto il giorno? Come arrivi a sera?». Ci ha pensato un po’ e mi ha scritto «Penso, e prego Gesù», e non ha aggiunto altro. Negli ultimi tempi ho ripensato spesso con commozione e gratitudine a questo dialogo, perché mi aiuta a capire più di qualunque mia riflessione cos’è la contemporaneità di Cristo, e di come sia facile per me pensare a Lui come si pensa ad un concetto astratto, invece che riconoscerlo in ciò che ho di fronte agli occhi. Nella sua condizione difficile e apparentemente senza speranza, in cui non può muoversi, non può parlare, dipende in tutto e per tutto da chi l’assiste, la mamma è lieta e serena. È grata quando qualcuno viene a trovarla, ride facilmente alle battute, vuole essere portata a messa e mangia di gusto. Questa sua impossibile serenità colpisce tutti, e mostra più di mille parole che la presenza di Cristo riempie e compie la vita, in qualunque situazione uno sia. Come ci hai detto all’inizio d’anno: «Pensarlo seriamente, con cuore, significa pensarlo come Giovanni e Andrea Lo pensavano mentre Lo guardavano parlare, tutti presi, calamitati dalla Sua presenza, dove la ragione, che li aiutava a entrare nella profondità del mistero di quella persona, era salvata dall’affezione».
Giovanni, Udine
Dieci minuti di battaglia tra l’io e il tu
È ormai giunto al termine il mio soggiorno nel Chiapas, Messico, dove facevo parte di una piccola missione sanitaria con i Minnesota Doctors for People. Abbiamo raggiunto i più remoti villaggi nelle montagne, allestendo ambulatori per assistere chiunque venisse, dai bambini ai novantenni. Abbiamo dato assistenza a 469 pazienti, nell’arco di dieci giorni.
C’è un particolare di quel lavoro che mi ha colpito. Svolgendo il mio compito di interprete, c’era sempre un momento, durante ogni visita, nel quale il paziente e l’interprete aspettavano che il medico tornasse dalla farmacia con le medicine. Devo ammettere che quello era uno dei momenti più impegnativi del mio lavoro. Mentre il resto della giornata scorreva spesso in un flusso continuo e il consulto vero e proprio richiedeva moltissima concentrazione, quei momenti con il paziente erano un’occasione per fermarsi. Dapprima ci scambiavamo timidi sorrisi, poi, finalmente iniziava il dialogo. Ho imparato a capire che la tensione di quei momenti era decisiva. Era la battaglia tra quello che dentro di noi ci fa essere egoisti e introversi e quella natura in noi chei, «ci richiede di interessarci degli altri». A volte mi sono sentita dolorosamente sopraffatta dalla differenza tra ciò che era “normale” per me e ciò che era “normale” per la persona che mi sedeva di fronte. Poi ci sono stati altri momenti colmi di grazia, come quando ho compreso che un vecchio ottantenne, sofferente di cataratta, che viveva in un remoto villaggio del Chiapas, desiderava la felicità quanto la desideravo io. Ho capito che noi due eravamo più simili di quanto le circostanze e le apparenze potessero farci credere.
Bisogna avere un cuore semplice e coraggioso per fare il salto oltre la barriera che separa “noi e loro”, ma alla fine ho imparato che fare quel salto mi corrisponde molto più che starmene prudentemente immobile. Prego perché io, ora che sono tornata a casa, possa guardare mio marito, i miei amici, il mio capo, e quelli che incontro ogni giorno, con la stessa tenerezza.
Stephanie, Crosby (Usa)
Con l’inizio dell’estate “Lettere, racconti, testimonianze dal Mondo” va in vacanza.
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