XXVIII Domenica
Tempo Ordinario - Anno A
(...) (Il re) mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. (...)
Molti credenti, prigionieri di una religiosità pre evangelica, mettono la chiave di volta del rapporto tra uomo e Dio nel peccato da espiare, e alla base di tutto il peccato originale. Invece il Vangelo a dire e ridire che l’asse portante della fede è il dono, e alla base il dono originale: “Se tu conoscessi il dono di Dio!”. La parabola di oggi lo racconta bene: c’è una festa in città, la più importante delle feste, si sposa il figlio del re. La religione respira aria di festa, si fonda sul dono. Il racconto si muove attorno a tre immagini: una stanza vuota; la ricerca per le strade; un abito sbagliato. Comincia bene, ma presto sbanda verso la tristezza. La sala vuota certifica un fallimento, come in certe nostre chiese tristi e semivuote, con il pane e vino che nessuno vuole, nessuno cerca, nessuno gusta; con la nostra afasia circa la Parola. E allora la sorpresa: il rifiuto non revoca il dono. Se i cuori e le case degli invitati si chiudono, l’inatteso Signore apre incontri altrove. Come ha dato la vigna ad altri contadini, nella parabola di domenica scorsa, così darà il banchetto ad altri affamati. I servi sono mandati con un ordine illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti o a formalità. “Non chiedete niente, voi invitate”. È bello questo Dio che, rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano, ha tanta gioia da regalare. E dai molti invitati passa a tutti invitati, dai notabili della città passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni. E io che pensavo che a fianco di Dio ci fosse posto solo per i buoni, i migliori, i bravi ragazzi: invece “la sala si riempì!” e non solo di gente per bene... Quando il re scende nella calca festosa della sala, io godo l’immagine di un Dio che entra nel cuore della vita. Noi lo pensiamo lontano, separato, assiso sul suo trono di giudice, e invece è dentro questa sala del mondo, dentro la vita, qui con noi, come uno cui sta a cuore la gioia, e se ne prende cura. Ha invitato mendicanti e straccioni e si meraviglia che uno sia vestito male. Ma non per ciò che indossa sulla pelle, per ciò che gli veste l’anima. L’uomo “senza abito di festa” è cacciato fuori non perché peggiore degli altri, ma perché spento dentro, senza festa nel cuore. Ascoltando questa parabola mi prende una fitta allo stomaco: sono ancora così pochi i cristiani che sentono Dio come un vino di gioia, un flauto da oltre. Sono così pochi quelli per i quali credere è una festa, bellezza del vivere, capitale di forza e di sorrisi.
(Letture: Isaia 25,6-10a; Salmo 22; Filippesi 4,12-14.19-20; Matteo 22,1-14)
Avvenire - Il Vangelo della domenica (a cura di Ermes Ronchi)