Intervento di don Fernando
Lo abbiamo appena sentito nella lettura: 50 giorni dopo la Pasqua, su Maria e gli apostoli riuniti, scese lo Spirito Santo riempendoli di coraggio. Quell’effusione li trasformò. E dato che il racconto sottolinea che erano diversissimi tra loro gli ascoltatori degli apostoli (Parti, Medi, Elamìti, Romani..), l’insegnamento è chiaro: il messaggio cristiano è nato con una destinazione universale, è nato per venire compreso da tutti i popoli, culture e razze. Il cristianesimo ha un DNA che lo rende capace di saldarsi con le più diverse culture ed epoche storiche. Il cristianesimo contiene una luce e un’ispirazione che tende a fare breccia in ogni tradizione culturale. Senza annullarle, ma perfezionandole.
Faccio un esempio: il cristianesimo è presente in Europa, in Iraq e nelle Filippine, 3 zone del mondo molto diverse tra loro. Bene, il Vangelo, arrivando in queste terre non solo non ne annullò costumi e culture, ma li accolse e li perfezionò. Ecco perché in Iraq, Europa e Filippine il Vangelo è all’opera da secoli ma le culture di queste 3 aree sono rimaste nella loro specificità e diversità. Conclusione: il Vangelo ha, certo, una sua proposta di vita, ma tale proposta si sposa col contesto culturale locale, facendolo fiorire al meglio. Un esempio è la Messa: ci sono differenze tra le Messe in Africa e le Messe qui da noi, eppure è sempre lo stesso Cristo ad essere in azione. Bene, il miracolo della Pentecoste che ci ha narrato la lettura va proprio in questa direzione: consistette nella comprensione nella propria lingua di quanto annunciarono gli apostoli.
> Quanto sto dicendo va a braccetto con un ‘raduno Caritas’ come il nostro, perché? Perché voi, settimanalmente, incontrate persone di orientamento culturale e religioso, proprio come erano quegli elamiti, parti, greci, giudei ed egiziani di cui ci ha parlato la lettura. Anche per queste persone che incontrate regolarmente Gesù è morto in croce e anche queste persone Gesù ama perdutamente. E i volontari della Caritas sono il segno di questo amore di Cristo per loro.
> Approfondiamo un poco questa cosa. Noi cristiani, pur se siamo una porzione prediletta da Dio, non abbiamo l’esclusiva di Gesù. Gesù è di tutti, di chi crede e di chi non crede, dei giusti e dei peccatori. A me è accaduto di consigliare a dei non credenti e a persone di altre religioni di leggere il Vangelo di Gesù. Un non credente può rimanere non credente e ugualmente trovare illuminanti certe parole di Gesù. Un induista può rimanere induista e ugualmente sentirsi profondamente toccato da certe pagine del Vangelo. Nessuno cristiano può menar vanto di possedere Gesù. Gesù è libertà, non ha le mani legate, è di tutti e per tutti, non si lascia sequestrare. Egli non deve chiedere il permesso alla Chiesa cattolica per poter toccare il cuore di un buddista. Egli è venuto perché ha un bene da offrire che è per tutti e non a caso la vita che ha dato sulla croce era per tutti. Gandhi non era cristiano ma quanto apprezzava Gesù, adorava il discorso della montagna, quello riportato nei cc. 5/6/7 del Vangelo di Matteo. Quindi, uno non deve dire: cosa può dire a me uno come Cristo, visto che non sono cristiano? Domanda sbagliata: Cristo ti aiuta che tu sia cristiano o no. Gesù non ti sostiene perché sei dei suoi, ti sostiene e basta. Cristo per poterti incontrare non ti domanda il tesserino della tua religione, Egli così come sei e con i valori che hai, si offre a dare senso alla tua vita. Un ateo che medita il Vangelo non solo non è una contraddizione, io dico che è uno che ha capito tutto. Sto dicendo queste cose perché se siete stati a Messa questa mattina, vi sarete accorti che la liturgia è stata tutto un rincorrersi di parole tipo tutti i popoli, ogni nazione, il mondo intero, l’universo. Si tratta di un frasario non casuale, ma che dice l’apertura universale del cristianesimo, l’orientamento di Gesù verso il cuore di ogni persona che è sulla faccia della terra. Certi paesini della nostra Italia hanno ancora nella piazzetta centrale una fontana la cui acqua serve per molti usi. C’è chi la usa per dissetarsi, chi per lavarsi la faccia, chi per metterla in un secchio e portarla a casa, i ragazzi la usano per giocare e bagnarsi a vicenda. Così è Gesù: c’è chi va da Lui per fede in Lui, chi va da lui per attingere sapienza e chi va da lui come ultima spiaggia. E Lui a ognuno offre cose buone.
Gesù, grazie allo Spirito Santo è molto bello che Tu, pur ritenendo
noi cristiani i tuoi prediletti, non lasci fuori nessuno dal tuo cuore.
2^ parte della riflessione
Cosa vuol dire essere operatori Caritas in questo tempo di pandemia o di fine pandemia? Cosa vuol dire testimoniare la carità in un tempo di rinascita? Una festa come la Pentecoste cos’ha da dirci? Vi offro alcune considerazioni che prima che, per voi, sono per me.
1) Abituati come siamo a programmare tutto e ad avere tutto sotto controllo, la pandemia ci ha ricordato che occorre essere più docili alla Spirito Santo, più capaci di cogliere le sue novità e di capire che la pastorale è uno stile prima di un’organizzazione. Siamo nel tempo dell’obbedienza, dell’obbedienza alle sorprese e novità che Dio ci invita a cogliere dietro i fatti.
2) La pandemia ci messo dentro il tempo del fermarsi, della riflessione e dell’attesa. Essa ci sta ricordando che forse stavamo camminando troppo in fretta, come ha detto il Papa. E’ vero, l’altro specie se povero, ti rallenta, ma è così che deve essere. Una parrocchia deve sempre prevedere un piano B. L’altro che mi rallenta aggiusta la mia fretta.
3) Ho detto che siamo nel tempo del fermarsi, ma anche nel tempo della semina. E voglio dire: non smettiamo di impegnarci, memori di com’era Gesù, che non aveva il tempo per posare il capo.
4) Con questo 4° punto tocco più direttamente il tema ‘Caritas’. Abbiamo il dovere e la missione di rendere Caritas tutta la nostra comunità parrocchiale. Ci disse il Vescovo nel 2018: non diveniate gli specialisti della carità, ma sentitevi al servizio di una carità che vada oltre voi stessi e che investa l’intero corpo parrocchiale. In breve, occorre che responsabilizziamo di più la comunità. Su questo punto credo che dobbiamo lavorare di più e meglio. Vi sottopongo qualche punto molto concreto:
> Poniamoci l’obiettivo di arrivare a parlare non più in “noi e loro (i poveri)”, ma “noi con loro”, meglio ancora, “noi”. Superiamo quel linguaggio che fa ritenere noi i non bisognosi e loro i bisognosi. Tutti siamo bisognosi. Il bisognoso è oltre il suo bisogno. Il Papa nell’ultimo documento sul ministero del catechista arriva a dire: Sogno una Chiesa in cui persone con disabilità siano catechisti.
> Ancora e qui fatemi sognare: perché nel nostro Consiglio pastorale siamo tutti bianchi e perfetti? Perché non comprende nessuna persona di colore? Quanto “gli ultimi” fanno testo nella nostra vita parrocchiale? Forse solo negli eventi, e nel quotidiano? E pensare che i poveri sono il vero volto della Chiesa. A essere troppo selettivi non si è la Chiesa di Gesù. Non dobbiamo diventare la parrocchia dei servizi, ma della prossimità.
> E vengo a un ultimo punto che interpella molto la Caritas. La vita non va solo accolta ma anche accompagnata. E voglio dire: una famiglia povera non va solo servita il sabato mattina ma anche accompagnata. Quanto diamo è sempre una misura tampone, ma il bisogno di quella persona rimane. Chiaramente siamo chiamati ad agire secondo le nostre possibilità, perché noi non siamo i servizi sociali o enti più in grado di noi di accompagnare.
Ecco, lascio, prima che a voi, a me, queste riflessioni nella speranza che abbiano un seguito. Maria Santissima nel cui mese ci troviamo ci soccorra.
S. Ilario 23 maggio 2021 – Solennità di Pentecoste