Omelia di Domenica 15 novembre 2020 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, Anno A
Di nuovo, come domenica scorsa, il Vangelo ci mette davanti una parabola di Gesù.
> Così è iniziata: un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede 5 talenti, a un altro 2, a un altro 1, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. I servi erano 3 e tutti e 3 furono chiamati per ricevere chi 1, chi 2, chi 5 talenti. Nessuno venne lasciato senza niente, come a dire: nessuno è così povero da non avere nulla da dare. Ma cos’erano ste talenti?
Erano delle monete d’oro: un talento oggi avrebbe il valore di ½ milione di euro, una somma molto grossa, che nella simbologia della parabola sta ad indicare la grande fiducia che Dio ripone in ciascuno. Si può anche dire: i talenti sono le opportunità, le chance che vengono date a tutti, affinché la vita di tutti possa fiorire al meglio. Ma c’è un 2° volto del talento: ogni persona che incontro è un talento. Siamo tutti un talento di Dio per gli altri. Che bello poter dire come talento io ho ricevuto te. Fidanzati, sposi, amici, figli e genitori dovrebbero dirsi: Tu sei il mio talento. Non c’è cosa più bella che dirsi queste parole, sentirsi cioè dono gli uni per gli altri.
> Mi soffermo un momento sul 3° servo della parabola, quello che, intimorito, nasconde il suo talento, lo sotterra e non lo mette a frutto. Credetemi, molti sono quelli che assomigliano a questo personaggio, forse anche noi. Sto uomo non utilizza il dono ricevuto a motivo dell’idea che aveva del suo signore. Dice: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra. Questo 3° servo era frenato da una carenza di fiducia. La sua idea di Dio era quella di un’autorità implacabile, senza amore, e questo lo atrofizzava. Dico una cosa importante: quel credente che sbaglia idea di Dio, sbaglia su tutto il resto: su se stesso, sui suoi obiettivi, sulle sue relazioni. La paralisi di questo 3° servo lo rendeva incapace di rischiare, gli procurava la paura di osare e di lanciarsi nell’avventura dell’esistenza. Preferiva starsene fuori, essere spettatore. Preferiva stare al balcone e vedere a distanza cosa accadeva anziché entrare nell’agone e fare la sua parte. Preferiva, oggi diremmo, riprendere con lo smartphone anziché addentrarsi nella scena. Insomma, sto servo, per non aver saputo cogliere la fiducia di Dio in lui, si rese inservibile, divenne un servo che non serve. Credetemi, la fatica di tanti nella vita sta proprio in un deficit di coraggio e di fiducia. Mi vien da pregare così:
Signore, dà alla mia vita la speranza del seminatore, il quale semina largamente e fiduciosamente, e conta più sulla potenzialità del seme che non sull’elenco degli ostacoli che potrebbero impedirne la geminazione.
Signore, dammi il coraggio dei Magi, i quali, alla faccia delle tante ragioni che si opponevano al loro complicatissimo viaggio verso Betlemme, sono andati ugualmente.
Signore, dammi il coraggio di Maria, che non si lasciò spaventare dalla lunghezza e durezza del viaggio verso la lontanissima casa di Elisabetta sulle montagne di Giuda, neppure dalla possibilità di mettere in pericolo la vita del figlio che aveva in grembo, perché uno scossone in più o uno spavento avrebbe compromesso la sua gravidanza.
E allora concludiamo in questo modo:
Signore grazie perché con la parabola dei talenti ci hai mostrato quanta fiducia sei disposto ad accordarci.