Omelia di Domenica 14 febbraio 2021 - VI Domenica del Tempo Ordinario, Anno B
Il Vangelo di questa domenica ci presenta Gesù in compagnia di un uomo malato di lebbra, dico malato di lebbra, non lebbroso. La differenza è sottile ma c’è. La parola lebbroso è marchiante e totalizzante: lascia intendere che la malattia che hai, coincide con la tua persona, copre ogni aspetto di te, e invece non è così. Un uomo non è la sua malattia: anche il più malato dei malati rimane una persona, con un suo volto, una sua anima, una sua fede, una sua sensibilità.
Al tempo del Vangelo c’era una mentalità spietata: la lebbra escludeva, era una malattia temutissima, come oggi l’Alzheimer, la depressione, il tumore. Nell’antichità il lebbroso era uno scomunicato, una sorta di cadavere ambulante. A certe malattie erano collegati incubi, paure, fantasmi. D’altronde, anche noi, sani al momento, viviamo nella paura che ci venga detto: Anche tu hai quel certo male! Oggi, le parole che più desideriamo sentire non sono solo ti amo ma anche non si preoccupi, è benigno. E però lo dobbiamo dire: è nella malattia grave, che affiorano le grandi domande sulla vita e sul perché siamo al mondo. Bene, Gesù con i malati gravi e segregati, cosa faceva? Ce lo ha detto il Vangelo: ne ebbe compassione, tese la mano e lo toccò (= lo accarezzò), anche se era proibito. Proprio perché tanti malati vivevano segregati, distanziati da tutto e tutti, Gesù si opponeva a questa cultura dello scarto e alla faccia della legge, li avvicinava. Stando alle norme del tempo, la carezza a quel lebbroso, Gesù se la doveva risparmiare, perché non si poteva toccare chi non si doveva toccare, né amare il non amabile. Il Vangelo addirittura dice che pure il lebbroso trasgredì dato che anche lui andò verso Gesù, e non poteva. In tema di malattie, noi non immaginiamo quanto fosse messa male la situazione ai tempi di Gesù. Quand’ero studente di teologia, avevo come professore di sacra scrittura Luciano Monari, che poi divenne vescovo, prima di Piacenza e poi di Brescia. Oggi, 79enne, in pensione, risiede nel suo paese natale, Sassuolo. Delle sue lezioni di sacra scrittura non riesco a dimenticare alcune cose che diceva a noi studenti sulla vita quotidiana della Galilea del 1° secolo. Gesù nacque in un mondo di malattie, l’ambiente in cui viveva era lercio, maleodorante, insalubre. Un’influenza, un brutto raffreddore o un ascesso a un dente potevano uccidere. Era questo il mondo di Gesù, il quale se continuamente cercava i malati è perché conosceva bene l’esclusione e il malessere, fisico e morale, che pativano. Non a caso, buona parte dei suoi miracoli erano guarigioni: era circondato da problemi debilitanti alla pelle (riuniti sotto il nome di “lebbra”), epilessia, perdite di sangue di una donna, una mano inaridita, idropisia, cecità, sordità, paralisi. Pertanto, quando nella preghiera affidiamo a Gesù i malati, lo facciamo anche perché Egli, meglio di qualunque altro, li capisce, in quanto toccò con mano le brutture e l’incubo di certe malattie. E se Gesù per i malati faceva dei miracoli, quel che invece spetta a noi è fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità. Un esempio. In tema di disabilità, facciamo in modo che se un disabile è capace di fare anche una sola cosa buona, la possa fare: in questo modo si sentirebbe utile a qualcosa. E’ così anche per noi: è sentendoci utili che rimaniamo vivi e motivati. Le cure mediche hanno dei limiti, l’amore no. Dare le cure senza cuore è davvero poco. Chiediamoci: se appena vediamo qualcuno ferito lo soccorriamo, perché non facciamo altrettanto con chi è ferito nel cuore? Se tutti facessero così, i malati scomparirebbero. Sto sognando, è vero, ma anche i sogni hanno una loro forza. Per feriti nel cuore intendo chi è triste, umiliato, tradito, scartato.
Gesù, vogliamo fare nostro il tuo atteggiamento con il lebbroso del Vangelo: rendici compassionevoli e le nostre mani, rendile capaci, come le tue, di accarezzare.