Omelia di Domenica 11 luglio 2021 - XV Domenica del Tempo Ordinario, Anno B
Gesù chiamò a sé i 12 e prese a mandarli 2 a 2. Così è iniziata la lettura del Vangelo. Se Gesù era venuto nel mondo per annunciare il Vangelo, fino a quel momento lo aveva fatto lui, ora toccava agli apostoli, i quali per la 1^ volta, si trovarono a predicare il Vangelo. Proviamo un attimo a metterci nei loro panni. Non erano mai stati missionari, non avevano mai predicato, tra l’altro non è da escludere che fossero analfabeti. E poi, andare di casa in casa ad annunciare una novità così enorme come l’inizio di una nuova era religiosa, davvero era una cosa grossa. Si saran chiesti: chi mi ascolta mi darà del matto? Saprò parlare? Saprò essere convincente? Io non sono mica Gesù, non ho la sua autorevolezza, il suo sapere, la sua scioltezza. E se verremo rifiutati? Oppure se mi rivolgeranno domande a cui io non saprò rispondere? Insomma, c’era negli apostoli, essendo la loro 1^ esperienza di annuncio, un comprensibile sentimento di trepidazione. Il Vangelo di domenica prossima ci racconterà come si concluse questa spedizione missionaria.
> Questi i fatti. Ora, visto che ogni pagina di Vangelo è anche per noi, ci chiediamo: come i 12 apostoli, ci sentiamo pure noi degli inviati? Come i 12 apostoli ci sentiamo pure noi investiti di una missione, di un compito importante? Per rispondere affermativamente occorre che ci sia una persuasione, la persuasione che il mondo senza il Vangelo è più povero e che quindi il Vangelo è qualcosa che al mondo non deve mancare. Tra l’altro, vien da chiedersi: se il Vangelo non fosse così necessario, i missionari che ci stanno a fare? Ci dovrà pur essere un perché se Gesù un giorno disse: Andate in tutto il mondo a predicare il Vangelo. Il perché c’è ed è questo: la fede in Cristo è un tesoro grande da offrire al mondo. Chiediamoci allora: ho già fatto esperienza che il Vangelo contiene una sapienza che dà un perché e dà qualità a tutto ciò che facciamo?
> C’è poi una 2^ riflessione. Se tutti, in quanto battezzati, abbiamo in carico la testimonianza cristiana, io noto che in tante comunità parrocchiali aleggia la mentalità della delega: alla carità provvede la Caritas, al catechismo i catechisti, alla liturgia il gruppo liturgico, ai canti il coro, ecc. E invece non stanno così le cose: in una parrocchia, tutto è affare di tutti! Se il coro c’è è perché tutti cantino. Se la Caritas c’è è perché tutti diventino caritatevoli. Se i catechisti ci sono è per ricordare che tutti hanno il dovere di trasmettere la fede. Ma c’è di più: portare avanti un impegno significa non cederlo ad altri se spetta a noi. Non puoi aspettarti dagli altri quello che dovresti fare tu. Pertanto, nessuno deve sostituirmi in un dovere che spetta a me. Se io cedo il mio compito, accetto l’idea che qualcuno possa fare ciò che invece devo fare io. Se accetto di essere sostituito, avvaloro l’idea della non necessità di me. Se spetta a me un certo servizio, non lo posso affibbiare a un altro. Le parole sarà per un’altra volta o lo farà poi un altro sono scuse, perché un’altra volta è, appunto, un’altra volta e non la volta che Dio ha messo innanzi a te, qui e ora. Si fugge un pericolo, non una responsabilità. Viviamo in un tempo che fugge le responsabilità e soprattutto fugge tutto ciò che è durevole e stabile 40 anni fa moriva un gran prete, don Zeno Saltini, originario di Carpi. Fu l’instancabile, l’operoso e il fecondissimo realizzatore di Nomadelfia. Bè, questo don dispose che sulla sua tomba ci fosse scritto: qui giace un uomo che poteva fare di più. E sentite cosa disse M. Teresa di Calcutta a un giornalista che le chiese: Madre, cosa non va in questo mondo? E lei: Nel mondo ciò che non va siamo io e lei.
Gesù, l’episodio dell’invio degli apostoli a predicare il Vangelo, ci ha toccato e ci ha ricordato che l’essere cristiani è una responsabilità e una missione. Aiutaci a non cercare alibi e a non delegare ad altri impegni che spettano a noi.