“Comincia l’Esodo: quando torneremo saremo egiziani, oppure popolo di Dio”.
Quella frase mi rimbomba dentro, all’improvviso. Inginocchiato sul mio sacco a pelo in mezzo al Campo da Graça di Lisbona, sento la mano di Giorgia che stringe la mia. Forse ha percepito che dentro di me è successo qualcosa. Tengo gli occhi chiusi, le orecchie tese. Intorno a me c’è quel silenzio che solo un milione di cristiani riuniti in preghiera riesce a generare, lo stesso silenzio del Campus Miseriordiae di Cracovia, sette anni fa. Quella parola apparsa senza avvisare se ne sta lì, sospesa sopra un deserto di voci che tacciono. Con i maledetti riflettori che illuminano a giorno la notte lusitana premuti sulle palpebre e lo sciabordio della risacca in lontananza, ripenso alla scena di qualche ora prima.
Serena ha lanciato quelle parole dal microfono del pullman, a mo’ di battuta. La sua erre moscia e il tono esageratamente solenne con cui le ha pronunciate ci hanno strappato una risata che ha stemperato per qualche istante il pensiero dell’impresa che ci attendeva: due ore e mezza di cammino sotto il sole cocente lungo le strade della periferia di Lisbona, stanchi morti per la fatica accumulata nei giorni precedenti, carichi di zaini riempiti con tutto ciò che serviva per poter arrivare vivi all’alba dell’indomani. La nostra meta era chiara: il Campo da Graça, il luogo designato per la veglia conclusiva. Le informazioni essenziali le sapevamo: sapevamo dove fosse, sapevamo che il nostro settore sarebbe stato l’A14, sapevamo della sua posizione praticamente in riva all’oceano e infine sapevamo che saremmo stati in mezzo a un numero incalcolabile di giovani provenienti da tutto il mondo, quindi eravamo pronti a combattere fino alla morte per conquistare qualche metro di terra su cui stendere i teli cerati. E così siamo partiti a testa bassa e bandiere alte, con il cuore acceso, passo dopo passo, un sorso d’acqua dopo l’altro, innumerevoli piedi si sono messi in marcia e hanno lasciato le loro orme ovunque andassero: ghiaia, fili d’erba, asfalto. Abbiamo invaso le vie della città riempiendole di così tanta vita che le persone si affacciavano dai balconi, scattavano foto a raffica e si sbracciavano per salutarci. Ci siamo fermati a riposare lungo la via, abbiamo cantato inni e canzoni sceme per lenire la fatica, ci sono stati imprevisti, qualche disperso poi recuperato, ritardi sulla tabella di marcia…ma alla fine la leggendaria “spianata” si è aperta davanti ai nostri occhi. Con le ultime energie rimaste siamo corsi al nostro settore per accaparrarci i posti migliori e abbiamo messo in piedi veri e propri accampamenti con nient’altro che teli cerati, lacci improvvisati e bidoni dell’immondizia. Dopodiché, come eroi esausti dopo una grande impresa, ci siamo stesi ad attendere l’arrivo del papa all’ombra delle nostre roccaforti, sbocconcellando qualcosa per recuperare le forze, fino all’inizio della fatidica veglia. Il Santo Padre non ha parlato molto, ha preferito essere conciso ed essenziale per poi lasciare spazio a Qualcuno più grande di lui. Dio è sceso sulla folla sconfinata senza far rumore e con un ampio movimento delle ali ha seminato parole sopra i nostri deserti. Nel mio, è germogliata quella che citavo in apertura.
Esodo.
Nel silenzio, quella parola mi chiama. Ogni esodo, che sia degli israeliti, di Maria, o il nostro, comincia con una chiamata. Ciascuno di noi è partito per rispondere alla voce di un Padre che gli ha detto: “Alzati”.
Alzati dalla tua mediocrità, alzati dalla tua pigrizia, da quel cumulo di peccati che ti intrappola, dalle tue scuse, dalle tue ferite, dai tuoi abissi, dal tuo Egitto. Alzati e va’ in fretta. E noi ci siamo alzati eccome. Controvoglia forse, preoccupati, senza sapere bene cosa aspettarci, magari lamentandoci…o magari, al contrario, eravamo pronti, disponibili, audaci abbastanza da dire di sì fin da subito, senza paura. Non fa differenza. Quello che importa è che abbiamo avuto il coraggio di rispondere alla voce che ci chiamava.
Nel silenzio, quella parola mi conduce. Che Dio sarebbe un dio che ti spinge a partire e poi ti abbandona? Non certo il Dio dei cristiani. Lui ci mostra la strada, prepara le tappe e sono anche abbastanza sicuro che accetti di farsi più di venti ore di pullman incastrato in un seggiolino pur di starci vicino. Il nostro cammino non ci ha portato in mezzo al Mar Rosso, ma abbiamo attraversato ben quattro paesi, che è comunque una buona media. Un numero incalcolabile di ore di autobus, soste infinite, lingue sempre diverse a ogni Autogrill e l’anima di tante città incollata addosso dopo ogni partenza. Quella poliedrica di Barcellona, in bilico tra l’odore di urina e il profumo di paella, le architetture gotiche delle cattedrali e il trencadìs di Gaudì, la spiaggia di Barceloneta e i vicoli del Barrio. Quella regale e placida di Toledo, città delle spade, di Don Chisciotte, dei quaranta gradi alle tre del pomeriggio e, modestamente, di una delle veglie penitenziali più belle nella storia della diocesi. Infine quella di Lisbona, che mi riesce molto difficile non immaginare dipinta degli stessi colori che ci hanno accompagnato in questi giorni. Un’anima agitata dal vento oceanico, pervasa di saudade e voglia di partire come Magellano.
Infine, nel silenzio, quella parola mi promette. Nessuno partirebbe se la meta non valesse la pena. Certo, devi fidarti, non è umanamente possibile avere tutto chiaro fin da subito e sapere già quello che succederà. Eppure, una garanzia ce l’abbiamo: alla fine di ogni viaggio vissuto con Dio c’è sempre una terra promessa. Chi fuggiva dall’Egitto ha raggiunto la Terra di Canaan, chi andava in fretta per annunciare la buona notizia ha trovato il calore di Elisabetta, e chi è partito per la GMG…beh, se l’obiettivo fosse stata semplicemente Lisbona sarebbe bastato un volo nel weekend, non credete? No, io non posso sapere quello che il cuore di ogni pellegrino desiderasse trovare, ma di una cosa sono certo: nessuno è tornato egiziano, che fosse un volto, una parola, un abbraccio o una casa, tutti noi abbiamo trovato la terra che ci è stata promessa.
Apro gli occhi.
In quella manciata di minuti mi è sembrato di rivivere tutto il nostro viaggio, sono esausto. Giorgia tiene la testa appoggiata sulla mia spalla, le nostre dita sono ancora intrecciate. Non credo che questo silenzio durerà ancora molto, tra poco l’incantesimo si spezzerà. Alzo lo sguardo e sgrano gli occhi: intorno a noi due il deserto pullula di israeliti. Qualcuno gironzola in punta di piedi sul mare di tende e corpi addormentati sulle dune, qualcun altro scatta un paio di foto da postare l’indomani, altri ancora giocano a briscola, fumano, ridono, condividono una scatoletta di würstel annacquati. Due innamorati si sbaciucchiano sotto le stelle dell’Egitto, ignari che tutto il resto del gruppo li sta guardando male. Un sacerdote e un padre chiacchierano sottovoce accanto al fuoco, mentre un gruppetto di amici si è raccolto intorno a un ragazzo che accarezza le corde lievi di un kinnor. Una ragazza sola, in piedi sulla riva, osserva il Mar Rosso, ora quieto e buio, increspato da un refolo appena percettibile. Nel guardarla mi sfugge un sorriso. Serena aveva ragione.
Alla fine il popolo di Dio siamo diventati noi.
Jacopo Azzimondi